venerdì 28 agosto 2009

Nucleare? SI di Pietro Ferrari



Un nuovo bigottismo incombe sulla nostra società, ormai orfana di punti di riferimento assoluti, schiacciata dal sovraccarico di laicismi e relativismi vari. Il nuovo bigottismo ha un colore preciso, quello verde, preoccupato di non "alterare" i connotati della Dea Gaia, di quella Madre Natura che minaccia holliwoodianamente, cento catastrofi al giorno. L'argomento della degradazione pseudo-messianica del Sacro non rientra nel tema che voglio trattare, ma il ritorno ad una sorta di neo-paganesimo, monista e panteista, sembra l'ultimo vizietto ideologico di un Occidente che ha visto tutti i suoi Idoli andare in frantumi: la Scienza, il Progresso, la Storia, le Ideologìe e da ultimo il Denaro, nullificato nella truffa magica degli astrattismi finanziari. Nell'Era Ecologica, obamianamente apertasi nel novembre 2008, tornano dei tabù (per la verità soprattutto in Italia), che dovrebbero appartenere più all'escatologìa che alla tecnica propriamente detta. La "tecnofobia" pare accanirsi, al di là delle questioni bioetiche che qui esulano, nei confronti della scelta nuclearista riportata in Italia dal governo Berlusconi, con l'appoggio del partito di Casini e di sparuti gruppi nel PD. Non sono assolutamente contrario al nucleare.Quando non sarà più conveniente estrarre petrolio, il mondo intero subirà uno shock atroce perchè occorrerà trovare una fonte energetica altrettanto potente se non di più. Tralasciamo il problema immenso di COME riconvertire la vastissima gamma dei prodotti petrolchimici quando tale filiera non avrà più la sua fonte originaria...Basti pensare che la sola Cina, secondo autorevoli studi, tra 40 anni consumerà tutto il petrolio che OGGI viene estratto a livello mondiale. L'incalzante espansione delle nuove potenze (India, Cina, Brasile in primis) ha costretto il morente Occidente ad ipotecare qua e là i giacimenti che nel futuro potranno dare notevoli vantaggi competitivi e strategici nello scacchiere geopolitico. Lo stesso nobel Rubbia prima scettico ha dovuto ammettere che quella nucleare sarà necessariamente una delle alternative di approvigionamento energetico rispetto ai combustibili fossili. Il nucleare di quarta generazione sarà sfruttato da tutti i Paesi che vogliono restare competitivi a livello internazionale su diversi e strategici settori. Solo in Europa ci sono oltre DUECENTOCINQUANTA centrali nucleari e mi sembra pertanto debole l'argomento che vedrebbe un ridimensionamento di tale risorsa...in realtà i Paesi che GIA' hanno il nucleare non pensano affatto di farne a meno, ma di diversificare le fonti. Diversificare le fonti è come diversificare gli investimenti: non si rimane mai col cerino in mano perchè ci si prepara a sopperire le contingenze negative di qualche fattore rispetto ad altri. Cosa che è anche nel programma del governo per passare dall' 83% di dipendenza verso i combustibili fossili del nostro Paese, al 50%, lasciando un 25% al nucleare ed un altro 25% alle altre rinnovabili. Pertanto anche le altre rinnovabili saranno ampliate rispetto alla scelta miope ed antinazionale che al referendum del 1987 ci tolse una grande risorsa nella quale eravamo all'avanguardia mentre ai nostri confini brulicano centrali nucleari straniere. Così abbiamo avuto solo rischi senza vantaggi, anche se poi...(cosa RIDICOLA!!) abbiamo bisogno di ACQUISTARE energìa elettrica dalla Francia (che ce la fa ben pagare), prodotta col nucleare (!!!) in centrali che hanno avuto anche l'ENEL (!!!) come investitore!!! Se è giusto riconoscere all'Iran il diritto di ricerca nucleare per l'indipendenza energetica e la politica di potenza, quale sindrome di Tafazzi può indurci a negare tutto ciò alla nostra patria? Certo, la ricerca dell'uranio creerà nuovi monopoli ma varrebbe lo stesso discorso per i materiali dei pannelli fotovoltaici come rame, silicio, cadmio, anche difficili da smaltire con costi bassi e soggetti ad obsolescenza già dopo i primi dieci/quindici anni di uso, con conseguente fine di incentivi per lo scarso rendimento.La scelta di quello sciagurato ed emotivo referendum ci ha costretto a subire il ricatto petrolifero, il tallone del dollaro statunitense e le fluttuazioni delle quotazioni e sorprende che si sottovaluti così tanto quanto sia impattante per le famiglie italiane il dover pagare bollette energetiche il doppio più pesanti di quelle che pagano i francesi, per non parlare dei costi delle imprese che si riversano sui prezzi al consumo. Tale sudditanza potrebbe essere invertita se solo l'Unione Europea iniziasse lo "svezzamento" dell'euro, da moneta coloniale, a moneta alternativa nei pagamenti internazionali e come riserva monetaria. Strada, quella delle borse petrolifere desiderose di emanciparsi dal dollaro, che lo stesso Saddam Hussein aveva iniziato ad intraprendere, ancor prima di Ahmadinejad...Ma, comunque sia, la necessità di dotarsi di nuove fonti energetiche rimane cogente soprattutto per l'Italia.Enrico Fermi era italiano, il nucleare non è un'alternativa satanica ma una scelta opportuna ed un settore di ricerca al quale una nazione che abbia intenzione di rimanere tra i "G" del mondo, non può rinunciare.
Mai più nessuna Chernobyl si è verificata. Simbolo di un regime in putrescenza, vecchissima ed esplosa solo perchè fu tentato un esperimento rocambolesco, negato dalle autorità per una decina di giorni abbondanti. Tutto ciò appartiene al passato ma viene sfruttato goffamente come argomento principe antinuclearista. E l'idroelettrico? Perchè non ricordare ossessivamente il Vajont per togliere tutte le dighe in Italia? La prevedibilità di certi piccoli incidenti oggi e l'immediata risoluzione dei problemi conseguenti, dimostrano il contrario: cioè che le centrali nucleari sono essenzialmente sicure. L'Italia è l'unico Stato insieme all'Austria (per ovvii motivi geografici però) in Europa a non avere le centrali nucleari. Coerenza vorrebbe che non acquistassimo energìa elettrica dall'estero prodotta col nucleare per non fare la figura degli stolti. Totò, il funambolico "venditore" della Fontana di Trevi, avrebbe forse immaginato i tedeschi pagare i napoletani per lo smaltimento della mmùnnezza, o i francesi acquistare a prezzo decuplicato l'energìa elettrica dagli italiani, ma la storia recente, quella vera, gli avrebbe dato torto. A proposito, come si dice "acca nisciune è fesse" in lingua tedesca?

giovedì 13 agosto 2009

A destra nessuno sa raccontare la nuova destra di Angelo Mellone






Fonte: il giornale.it

Ha ragione Piero Ignazi: manca un libro che analizzi a fondo la storia, le idee, le organizzazioni e le tappe istituzionali della destra in Italia dal 1994 a oggi. Manca da più di dieci anni, dai tomi di Marco Tarchi, Dal Msi ad An (Mulino, 1997) e dello stesso Ignazi (Il polo escluso, Mulino 1998), dai contributi di Annalisa Terranova e Marco Di Troia sui movimenti giovanili, Planando sopra boschi di braccia tese e Fronte della gioventù (entrambi Settimo sigillo, 1996 e 2001), o dal volume (La destra allo specchio, Marsilio 2000) di Chiarini e Maraffi. Solo qualche reportage giornalistico come La fiamma e la celtica di Nicola Rao (Sperling&Kupfer 2007), qualche tentativo di teorizzazione o qualche pamphlet a tasso variabile di passione (Fabrizio Tatarella sul movimentismo giovanile, Cristina Di Giorgi sulla musica alternativa), cinismo o pressappochismo, è uscito.Inspiegabilmente, o forse no. È un enigma di tratto provincialistico: strano ma vero, quando quella che per comodità ha da definirsi destra politica, quando il partito smarrito che consuma il suo ruolo di alternativa sistemica dopo lo scoppio di tangentopoli e la riforma elettorale maggioritaria, quando questo partito, il Msi poi An, comincia a vincere, a essere forza di governo, a farsi oltre il perimetro della retorica a filiazione nostalgica, quando la destra vince la sua battaglia per la cittadinanza politica e culturale e ritorna a farsi senso comune, cultura popolare maggioritaria che catalizza identificazione in milioni di italiani postideologici, la destra allora diventa per magia isterica un oggetto meno epico, troppo urbano, meno catalogabile sotto la categoria scomoda e per questo entusiasmante dell’“anomalia”, e dunque quasi noioso, poco interessante.
Strano ma vero, il processo di normalizzazione democratica della destra fa guadagnare in voti e in legittimazione a governare ma spinge intellettuali e politologi a occuparsi di altro o a fabbricare giudizi preconcetti. Non è spiegabile per i cultori della scienza politica e del soft power secondo Joseph Nye (Leadership e potere, Laterza, 2009), declinazione moderna del concetto di egemonia culturale, quando è ancora tutto da spiegare l’impatto consistente della destra anni Novanta sull’immaginario collettivo, ben prima che Giulio Tremonti facesse teorizzazioni alter-global. Non è spiegabile neppure per quella pattuglia denutrita di giornalisti e intellettuali che, ciascuno a modo suo, s’è sempre mosso all’interno della destra intesa questa volta come milieu culturale, sociale e da ultimo politico (magari per distaccarsene da molto tempo, com’è il caso di Tarchi). Molti di essi, infatti, hanno costruito le loro grandi - a volte - o piccole - molto spesso - fortune editoriali proprio sulla volontà di sparare sul vecchio quartier generale, mentre chi prova a costruire ipotesi di nuova cultura politica viene accusato di complicità con una politica dissolutrice dei vecchi slanci ideali.
Anche a sinistra questo accade, ma in forma più complessa, dato il maggior potere di radicamento e interdizione che là detengono i residui dell’industria culturale. A destra, diciamola così, può esser data una lettura di, per lo più, tipo generazionale di questa infelice combinazione di disinteresse e disprezzo per le vicende politiche e culturali che partono dagli anni Novanta della seconda Repubblica. Alcuni esempi possono spiegare questo continuo alternarsi dei due registri della nostalgia e del risentimento. A destra, come a sinistra, nell’eterna riproposizione del mito reducista e dell’«ai tempi nostri», vige ancora il duplice principio della valenza morale del radicalismo politico e della superiorità etica della generazione degli anni Settanta: ciò che è venuto dopo è per forza di cose peggiore, contaminato con il “regime” che si voleva distruggere, quando forse si tratta solo della giovinezza che fu che stinge dalla memorialistica eroica alla semplice cronaca. È sintomatico, ad esempio, che in un libro come il recente Storia della destra di Adalberto Baldoni (Vallecchi, 2009), il Baldoni autore di un gran testamento generazionale come quel Noi rivoluzionari – prefazione straordinaria di Beppe Niccolai - che fece infuriare Almirante per il suo elogio del ’68, ebbene anche in Baldoni il pathos narrativo si arresta alle soglie del 1994 e cede il passo a una liquidazione piuttosto frettolosa di ciò che accade quando la destra, diremmo con Alessandro Caprettini, torna a veder le stelle. Lo spazio dedicato all’esame della dimensione aggregativa e musicale nelle esperienze giovanili o all’attività culturale si ferma agli anni ’80, salvo i rimandi bibliografici. I campi giovanili degni di menzione sono “solo” i tre campi Hobbit degli anni ’70, ed eventi significativi come i quattro Campobase degli anni ’90, che pure mobilitano migliaia di ragazzi, affrontando dibattiti a volte laceranti (memorabile quello sull’antiproibizionismo a Rocca Scalegna nel 1998) non trovano neppure la dignità di una citazione in nota, al pari della trasformazione del Fronte della Gioventù in Azione giovani. Stesso discorso per le riviste e gli istituti culturali (Area, che pure a fine anni ’90 supera la 10mila copie vendute, non è citata).

Un minoritarismo blindato ha fatto in modo che all’interno della medesima definizione di “cultura di destra” convivesse un po’ di tutto, storici, politologi, letterati, giornalisti, tradizionalisti e rivoluzionari, conservatori e futuristi, sinistri e destri. La seconda Repubblica ha permesso di superare questo eclettismo ideologico forzato: c’è chi recupera la vocazione antica, modernizzante, laica e nazionale della destra, e chi si costruisce l’immagine di un tradizionalismo a tinte reazionarie o persino antirisorgimentali che in Italia non è mai esistito in forme significative. Ad ogni modo, negli ultimi quindici anni l’immaginario di destra ha invaso il campo del costume e degli stili di vita, la cultura politica di destra ha trovato aria nuova e rinnovata sulle riviste, sui quotidiani, nelle iniziative editoriali, nei media elettronici, e persino nelle università. Eppure questo interessa poco. Sarà che si dà per assodato il paradigma dell’assorbimento, prima politico poi culturale poi antropologico, della destra nel berlusconismo. O sarà che qualche intellettuale, messo alla prova della trasformazione in politiche pubbliche delle sue teorizzazioni, fallisce e si ritrova a esser pretesto per Sandro Bondi quando scrive, a ragione, che la cultura «diventa inutile piagnisteo» se non è capace di farsi cultura politica. Conviene dar la colpa a qualcun altro o invocare la rovina del Tempo e della Storia. Nostalgia e risentimento. La nostalgia è quella per il tempo (per i cinquantenni, il tempo della gioventù) quando si stava meglio perché si stava peggio. Il risentimento per una speranza tradita è ciò che muove figure le più incomponibili come Marcello Veneziani, scultore in libri come La cultura della destra (Laterza, 2007) di un’idea immobile di destra che mai scende a patti con la modernità degenerata (eccezion fatta, guarda caso, per Berlusconi), o Pietrangelo Buttafuoco quando comunica sul Foglio di aver preso casa lontano dall’arena politica, o Stenio Solinas, critico feroce dell’evoluzione culturale di Gianfranco Fini. Tale evoluzione l’ha lodata invece un ex antipatizzante come Giuliano Ferrara: scherzo della sorte, alla sua corte sta Alessandro Giuli, il cui Il passo delle oche (Einaudi, 2007), se si scansano gli schizzi delle invettive, offre qualche spunto di interesse per comprendere come un impolitico osserva il processo di costituzionalizzazione della destra. Ma, ancora oggi, sono praticamente assenti le analisi di taglio comparativo sulla destra italiana e il contesto europeo. Ha ragione Ignazi: strano ma vero, è assente un volume rigoroso di analisi della mutazione della destra, culturale e politica, negli anni della seconda Repubblica, magari anche critico o supercritico, che racconti a fondo dimensioni decisive come il passaggio dall’alternativa al governo, la contaminazione con il berlusconismo, la dinamica dei processi culturali. Strano ma vero, non c’è.

martedì 11 agosto 2009

NASCE LA GIOVANE ITALIA, MOVIMENTO GIOVANILE DEL POPOLO DELLA LIBERTA'


Gli «under 30» del Pdl
Nasce la Giovane Italia. Meloni: niente quote

fonte: corriere.it 06 Agosto 2009


ROMA - Nasce la Giovane Italia, organizzazione giovanile del Pdl. «Non ci saranno quote», spiega la presidente temporanea Giorgia Meloni, già leader di Azione giovani. Gli otto membri del direttivo sono però spartiti a metà: quattro ex Forza Italia, quattro An. Il congresso del movimento sarà nel 2010. Il nome, scelto dopo un sondaggio su Internet, è lo stesso del movimento mazziniano ma anche di un' associazione di Stefania Craxi e dei giovani del Msi, il cui simbolo conteneva una fiamma. Ce l' avrà anche la Giovane Italia? Sarà deciso con concorso o sondaggio, ma nessuno spazio a ragionamenti nostalgici. Il debutto in occasione di Atreju 2009, dal 9 settembre: Berlusconi aprirà la manifestazione, tra gli ospiti Massimo D' Alema, in confronto con La Russa.