sabato 27 giugno 2009

RIBELLI, QUI E ORA di LUCIANO LANNA


Non è tempo di partigiani
Ribelli, qui e ora di Luciano Lanna




fonte: ffwebmagazine.it




Finalmente un’analisi che arriva al cuore della cesura tra sinistra e società civile. La compie, sulle pagine del quotidiano l’Altro uno studioso come Massimo Ilardi, docente di Sociologia urbana nella Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno. Da anni si occupa infatti del rapporto tra nuovi spazi urbani e dell’influenza sulla socialità e sulla vita delle persone. Il suo recente saggio "Ricominciamo dalle periferie" (scritto insieme a Enzo Scandurra) partiva da una riflessione sui flussi elettorali a Roma e sul fatto che la sinistra non ha saputo intercettare le aree periferiche e popolari. Ma con l’articolo – Ribelle è bello: la destra lo ha capito, la sinistra no – apparso ieri sul quotidiano diretto da Piero Sansonetti, Ilardi spiega che i progressisti hanno soprattutto la colpa di aver abdicato alla capacità di sintonizzarsi con quella mobilitazione generale verso la libertà che corrisponde allo spirito più proprio del nostro tempo.


Tutto parte dalla distinzione – risalente per la verità ad Albert Camus – tra rivolta e rivoluzione. E la sinistra, a detta di Ilardi, è purtroppo prigioniera di una cultura rivoluzionaria, di una visione della politica cioè che punta sempre a delineare e instaurare «un mondo nuovo e diverso». Nulla a che vedere con quello spirito di rivolta che, invece, non segue coattivamente alcuna legge prestabilita o vento della storia e non appartiene ad alcuna coerenza ideologica ma si origina e forgia sul “qui” e “ora”, sull’urgenza reale, sul territorio, anzi su quel territorio. «Il ribelle – annota il sociologo – non fa rivoluzioni la cui efficacia si potrà misurare in un futuro più o meno lontano, ma rivolte che valgono di per se stesse e sono legate a una causa e a una situazione contingente». Chi si ispira alla rivolta, insomma, è sostanzialmente un libertario, non cerca di trasformare il mondo per una sorta di imperativo categorico, anzi non smette mai di abitare il mondo così com’è, ma ha però un rapporto diretto con la libertà che lo porta a contrastare il pensiero unico, i luoghi comuni, gli apparati di potere, «e soprattutto contro chi, in nome dell’ordine e della legalità, lo bracca per rinchiuderlo nei recinti duri e asfissianti dei divieti...».




La libertà, dunque, non è un concetto vago e astratto, non è un viaggio che si può fare ovunque. Ilardi cita a proposito Spartaco, lo schiavo ribelle: essere liberi sì ma a Roma e non nel nulla. «Questa – aggiunge – è sempre la posta in gioco di ogni rivolta che determina i suoi obiettivi in maniera concreta, che definisce qui e ora le sue rivendicazioni...». E, da questo punto di vista, «la sinistra ha prodotto partigiani ma non ribelli». E oggi, è la conclusione dello studioso, «è tempo di ribelli e non di partigiani». A questo punto, partendo da una appropriata citazione di Ernst Jünger, Ilardi procede a elencare tutte le icone dell’immaginario che, nell’ultimo ventennio, hanno rappresentato e celebrato questa collettiva ed epocale domanda di libertà. Da Céline a Jack Kerouac, da Sam Peckinpah a Clint Eastwood, da Capitan Harlock a Braveheart, da Frodo Bagging a Fight Club, sino ai pirati dell’Atlantico... E, potremmo aggiungere noi, dai film di John Milius ai testi di Bukowski, da due romanzi come Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta e Il gabbiano Jonathan Livingston ai racconti di viaggio di Bruce Chatwin, dalle pellicole di Don Siegel a quelle di Sergio Leone, da Giorgio Gaber a Fabrizio De André... Si tratta, nel loro insieme, di quella vocazione libertaria emersa come l’ospite inatteso e il modello segreto di tutto un sommovimento culturale che ha investito l’Europa e l’Occidente sin dalla fase post-sessantottina. Ilardi è d’accordo: oggi non c’è infatti alcun sistema da abbattere, semmai una deriva di regole a tutti i costi, «retaggio di quell’azionismo politico minoritario e parassitario che ha sempre e ovunque perso».


Non si torna, insomma, alle vecchie ricette. A suo tempo Ilardi lo spiegava analizzando il successo dei centri commerciali: «Distruggono i legami fondati su relazioni forti che una volta davano identità alle persone ma che – aggiunge – costringevano anche uomini e donne dentro una prigione che li rinchiudeva tutta la vita». Non possiamo pensare a un ritorno ai vecchi spazi, il corrispettivo della nostalgia di una certa sinistra per le ideologie di una volta. Bisognerebbe invece chiedere ai giovani, aggiungeva Ilardi, perché in certi luoghi ci vanno: «Se vogliono risparmiare, vogliono trovare tutto senza perdere tempo devono andarci, non possono mica andare dal bottegaio sotto casa che magari li frega sul prezzo o sul peso...». Ecco, c’è in questa analisi la chiave di tutta la questione. La politica non può non sforzarsi di interpretare e rappresentare la società.




«Bisognerebbe domandarsi – si chiede Ilardi – perché la sinistra è incapace di creare un suo immaginario. E senza immaginario, lo sanno tutti, non si fa politica vincente...». Scriveva vent’anni fa Milan Kundera: «È impossibile definire sinistra e destra sulla base dei principi teorici sui quali esse si appoggiano. E non c’è motivo di stupirsi: i movimenti politici non si fondano su posizioni razionali ma su idee, immagini, parole, archetipi». E sulla sinistra precisava: «Ciò che fa di un uomo di sinistra un uomo di sinistra non è questa o quella teoria, ma la sua abilità a far sì che qualunque teoria diventi una parte di quel kitsch chiamato “marcia in avanti”». Lo conferma oggi Ilardi: «Qualcuno pensa che il buonismo, l’autodisciplina, la responsabilità, il senso dello Stato, l’austerità, facciano sognare uomini e donne?». No, perché non è tempo di partigiani, ma di ribelli.




Pubblicato sul Secolo d'Italia del 25 giugno 2009

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